Tutta colpa di Alessandro. In questi giorni, due anni fa, mi correvo via alla Passeggiata le tossine di ore di riunioni da sessione di bilancio preventivo in Comune; sguardo fisso sulla tettona di pietra che si avvicinava a lente falcate ed ecco che incrocio il vecchio Fancio, tirato a lucido e sudato il giusto: sguardo concentrato, scarpe di un giallo invadente e cappellino, si lanciava in ardue ripetute contromano, lungo il rettilineo del baretto. Lo avvicino sornione pronto alla battuta  e lui mi anticipa: – “Non sarà ora che te metti a fa’ qualcosa de serio?”- Tipo? – “Tipo il triathlon: noi ci vediamo stasera per una birra…vogliamo mettere su una squadra.” Ora intendiamoci, quando arrivi ai quaranta e un po’ di sport l’hai sempre fatto, le tue sfide te le sei già programmate e gustate; infatti, dopo una quindicina d’anni di irriverenti canestri in faccia  a nibelunghi e masai di mezza Italia e qualche anno di onesto riposo da alcol, musica, fumo e “rock and roll” in cui avevamo fatto ballare e divertire mezza Terni alle feste a Valleantica, m’ero già sorbito, tra l’altro, la bellezza di cinque maratone, inclusa quella di Atene e già pensavo di portarmi il fido Stefano Zatopeck Cinaglia, compagno di sudate, insane risate e follie varie, in quel di Amsterdam… Ma il triathlon, beh, quella parola esotica associata a qualche sborone della Conca travestito da superman per la durata del caffè mattutino, francamente mi stuzzicava e non poco, ma non ne sapevo nulla. Non che non nuotassi o provassi a pedalare di tanto in tanto con ferracci a due ruote che mi capitavano, ma di farlo senza mai fermarsi ancora non m’era venuto in mente. Sul momento ho ridacchiato ed ho ripreso a correre, però pensavo che, in fondo, se lo faceva lui. Ai tappetoni elastici la curiosità era già cresciuta, ai campi da bocce ero già convinto: torno indietro e gli dico che la sera vengo, ma solo a sentire………….


C’ho ripensato tante volte a quel pomeriggio con Fancio, almeno ogni volta che ho infilato la bici in zona cambio e mi sono guardato intorno, sorridendo fra me e me del circo che vedevo muoversi intorno. Stasera però è diverso. Imbusto la bicicletta nel telo in pvc con il logo mitologico che ho visto in mille e piú riviste, lontane migliaia di chilometri sotto alle scarpe e sulle spalle e preparo le sacche per le rastrelliere: domani mattina potrò rientrare per gonfiare le ruote e posizionare i gel col nastro di carta sulla canna e le borracce fresche. Lo capisci subito di stare all’universitá del triathlon, con la stessa tensione di un ragazzotto di provincia piombato in aula magna dritto dritto dalla corriera delle 6 e 20. Ci sono bici intorno a me che non ho mai visto, sembrano profili di ombre sul muro, pronte a fendere l’aria come lame affilate nel burro. Pettorale 1888: posso pure azzardare che non parto esattamente da favorito. In piedi davanti al mio posto bici, in silenzio come un bambino in chiesa, cerco un riferimento per orientarmi velocemente quando arriverò dalla spiaggia con la muta alla vita, cuffia e occhialini in mano e il fiato grosso: da dove sto non vedo neanche la fine della zona cambio ma ho davanti l’insegna in uno stampatello da 40 centimetri di Calzedonia: quella la leggo sicuro anche dopo 1900 metri di bracciate furiose tra le onde dell’Adriatico. Con me c’è Francesco, scanzonato il giusto da farmi tenere sotto controllo la tensione dell’esordio; lui è al secondo medio ed ha il ciuffo delle grandi occasioni. Siamo stati a Barberino del Mugello insieme, per l’IronLake e quando la mattina l’ho visto versare nelle borracce metà Gatorade e metà Red Bull e agitare forte, mi ha decisamente conquistato. Proprio come Alessio, il terzo del magico trio, che, dopo una cena poco ortodossa innaffiata da birra fresca alla spina, un paio di grappe barricate ed una camomilla corretta al rhum, la mattina è partito dall’albergo con una bottiglia di acqua Sant’Anna da un litro e mezzo con un foro in cima al tappo, infilata a forza nel porta borraccia…e tanti saluti ai puristi. Da qualche parte ci sono pure Luigi e Francesco, esperti e pronti, ma sempre disponibili a dare tutti i consigli del caso. Francesco, che di edizioni ne ha fatte almeno un paio, mi ha pure dato qualche dritta per la frazione di bicicletta…ma tanto so che domani sarò da solo lì fuori a mettere alla prova testa, cuore e mesi di allenamento. C’è tanta musica e tanta gente; i triatleti però li riconosci subito: hanno tutti al polso un braccialetto di plastica azzurra che non possono togliersi fino al traguardo di domani e sembrano tanti bambini della colonia a spasso sul lungomare prima della cena. Passiamo proprio davanti all’arco dell’arrivo ma giro la testa dalla parte opposta: io e lui ci guarderemo in faccia domani, per il momento fugace in cui lo attraverserò urlando fuori tutto il fiato che mi rimane e magari ci ballerò sotto la gioia per aver raggiunto l’ennesimo traguardo. Per ora l’obiettivo è un tavolino fronte mare con tutta la banda e un bel piatto di spaghetti alle vongole che Red Bull Francesco, ovviamente, accompagna con una pizza funghi e salsicce, con un uovo al centro…come antipasto. Dopo la sua grappa barricata, filiamo dritti a letto: l’appuntamento è per domani alle 9 per andare insieme in zona cambio…col drago sul petto. Il caldo della notte tradisce una giornata di passione, ma tanto siamo in ballo e la partenza alle 12 e 50 della mia numerosa batteria mi toglie ogni dubbio: ci sarà da soffrire. Esco dalla camera teso come al primo giorno di scuola e in cinque minuti sono in strada, zaino in spalla. Mi avvicino a Francesco che cammina nervoso e scalzo sul marciapiede e già sorrido. Aspettiamo che scenda Luigi. “Katia, tesoro, siamo pieni di mutante!” tuona al telefono Francesco, proprio in mezzo al via vai di atleti serissimi e concentrati che si avvicinano alla zona cambio e tutta la tensione sparisce di colpo. C’è proprio tanta gente per strada, ma noi ci infiliamo subito in zona cambio per gli ultimi preparativi, facendo lo slalom fra cento e più selfie selvaggi e furiose pompe di bicicletta. Credo di essere l’unico che si ostina fieramente a non depilarsi le gambe; pure Francesco, per l’occasione, ha lavorato di rasoio e sfoggia un look professionale.

Si avvicina l’ora della partenza e ci avviciniamo anche noi. C’è talmente tanta gente in spiaggia che il mare posso solo intuirlo dopo la distesa di cuffie colorate. Ci conquistiamo un posto all’ombra di una palma per infilarci le mute e ingoiare un gel e poi un fresco fazzoletto d’acqua per fare qualche bracciata e non sudarci via tutti i liquidi prima di partire: decisamente troppi 35 gradi per stare sotto il sole con cuffia e muta, così il capitano Luigi mi trattiene in acqua fino all’ultimo secondo e mi consiglia di restare a testa scoperta. Quando chiamano la nostra batteria si è alzato un forte vento che ingrossa il mare, ma mi preoccupa di più per i danni che potrà farci lungo la frazione di bicicletta. Brutti presentimenti. Ammassati ed in trance ci avviciniamo alla linea di partenza: la cuffia è verde e siamo in 400 nella nostra batteria: già lo so che, fino alla prima boa, sarà una tonnara di corpi che si agitano e che non vedrò acqua per tante bracciate…ma il gioco è questo e l’adrenalina sale. Via! Dieci passi e pluf. L’acqua è ancora bassa. Ci vogliono altri cinque passi e pluf. Dieci secondi e sono  con la testa in acqua e mulino tutto lo spazio che ho intorno. Le urla della spiaggia scompaiono nella schiuma salata. Respiro ogni due bracciate e prendo il ritmo che so. La boa è lontana; la vedo appena tra il nero del neoprene che avanza a scatti frenetici: devo mantenerla sulla sinistra e poi andare dritto per almeno un tempo supplementare di calcio. Onde e corrente. Braccia e gambe. Ritmo, puzza acre di gomma bruciata e  sudore aspro. Gambe e braccia e tanta schiuma, troppa schiuma. Pensiero fisso alle migliaia di vasche ingoiate alla Romita e sguardo che cerca la traiettoria migliore. Allungo la bracciata e aumento la frequenza: ora lo spazio c’è. Una cuffia verde avanza accanto a me e mi fa compagnia. Quando arrivo alla seconda boa ho già mangiato metà frazione e la corrente mi spinge indietro. Alzo la testa tra le onde ma non riesco a vedere la terza boa arancione: ancora troppo lontana l’uscita dall’acqua. Le braccia mi bruciano, incremento la pinnata. Raggiungo una cuffia gialla e poi un’altra: sono le retrovie della batteria precedente. So bene che, a momenti, mi sfreccerà davanti qualche cuffia arancio delle staffette: nuotatori veri, prestati ad una sola frazione, che non devono preoccuparsi neanche di dosare le forze, tanto sanno che, messi i piedi sulla sabbia, i loro sforzi saranno finiti. Noi invece dovremo soffrire ancora per 90 chilometri di bicicletta e 21 di corsa, centellinando ogni energia. A poco a poco mi sembra di sentire il rumore dalla spiaggia e finalmente ecco la boa arancione, l’ultima. Arrivano puntuali come i conti della carta di credito anche le avanguardie degli staffettisti, ma vedo la battigia ormai e toccherei terra pure se mi legassero in vita ad un grosso elastico. Giù la muta fino all’ombelico e via, fuori dall’acqua, a correre lungo la lingua di feltro rosso che mi porta alle biciclette. La vedo subito Daniela, la vedo sempre. Sono gli occhi che mi hanno stregato vent’anni fa che mi calamitano sempre verso di lei. So che scatterà una foto e tiro fuori irriverente la lingua: che non si preoccupi neanche un attimo il mio scricciolo…che sappia sempre che va tutto alla grande e ci stiamo divertendo. Corro tra tante teste urlanti lungo le transenne, ognuna alla ricerca del folle che hanno accompagnato e che aspetterà per ore sotto il sole dardeggiante, che se un triathlon medio è duro per chi lo gareggia, è altrettanto duro per chi lo subisce, in attesa della sospirata fine, tra riti, tensioni e follie che a raccontarle ci vorrebbe un libro. Forse lo stesso libro che, profetica, Giulia ha regalato a Varenne a Natale: “Il mio ex fidanzato faceva gli IronMan”.

Afferro la sacca rossa e mi getto sulla panca per sfilarmi la muta. Sulla mia rastrelliera ci sono ancora parecchie biciclette: un sollievo! Casco, occhiali e via. Ma quanto è lunga ‘sta zona cambio? Esco che mi pare d’aver corso tutta via Roma trascinandomi accanto la bicicletta e finalmente salgo in sella. Leo, Lu Mago, mi ha posizionato le due appendici modificate di Varenne sul manubrio, con due generosi giri di neoprene per appoggiare i

gomiti. Ha studiato la migliore angolazione e mi ha detto di mettermi giù e tirare forte. Riccardo, invece, che mi ha riempito di premurosi consigli, si è raccomandato di bere e di mangiare ad intervalli regolari: io sono un soldatino…do retta ad entrambi alla lettera. Come esco dal viale alberato sono già sul raccordo della superstrada; la chiamano l’Asse Attrezzato e tutti mi hanno detto che lo dovrò temere soprattutto al ritorno, quando mi troverò davanti gli ultimi 15 km col vento in faccia. “Ti butti accanto al New Jersey e testa bassa” mi ha suggerito l’IronMan Mauro prima di partire. Il problema non c’è: appena mi immetto sulla lingua d’asfalto e guardo l’orizzonte che trema per il caldo, mi viene incontro la prima folata di vento forte e vigliacco: non ci abbandonerà per altri 75 km di duri saliscendi e la strategia finisce dritta in fondo alle scarpe. Poco male: ho nelle gambe migliaia di chilometri, 3 borracce d’acqua e sali, 2 gel alla Coca Cola, una barretta e tanta voglia di superare qualcuno: testa bassa e pedalare. La salita comincia presto e col vento contro non è una roba da signorine. Non c’è panorama che tenga con 35 gradi che picchiano sul caschetto ed il sudore che sporca le lenti degli occhiali, ma è dura per tutti. Gli ufo con le bici spaziali sono quelli che faticano di più: le ruote lenticolari sono aquiloni troppo pesanti da far girare e in discesa sbandano come gli amici dello sposo ad una festa d’addio al celibato. Pedalo e basta, il cronometro neanche lo guardo, tanto lo so che, con questo vento, i 90 km dentro al tempo che avevo in mente di fare, proprio non ci staranno, manco a spingerli a forza. Apro il body e mi alzo sui pedali; in cima ad ogni salita trovo qualcuno che ci dice che è finita. Poi, puntualmente, dopo una curva la strada ricomincia a salire e mi verrebbe voglia di girare la bicicletta, tornare indietro e prenderlo a sberle. Al primo ristoro getto via la borraccia ormai vuota ne arraffo una d’acqua fresca. Raggiungo uno che sbuffa più di me: ha il body tutto aperto rivoltato fino all’ombelico e ondeggia in salita come se aggredisse il Pordoi. Lo affianco e scambio qualche parola…non mi risponde. Gli dico che andare a petto nudo è peggio e che così rischia di perdere ancora più liquidi…ma non si volta neanche. Allora gli getto addosso il mio peggiore sguardo, cambio rapporto e mi alzo sui pedali per lasciarlo lì in mezzo al nulla, ma  proprio in quel momento un movimento scomposto muove un lembo del body, si scopre il pettorale e realizzo che c’è stampato un nome impronunciabile, proprio sotto alla bandierina russa: ho parlato per minuti con un sovietico stremato dal caldo desertico e dalla salita, che non capiva mezza parola. Lo abbandono al suo destino e mi ritrovo a ridere da solo. Per festeggiare, ingoio veloce il primo gel alla Cola e brindo con una generoso sorso di sali agli agrumi. E’ in arrivo il ristoro numero due e getto via la seconda borraccia: tutto secondo i piani. Le gambe girano nonostante il vento e maciniamo chilometri. In discesa devo stare molto raccolto: le folate mi spaventano e vedere un atleta con la lenticolare volare via per il vento, non mi tranquillizza affatto. Ne scorgo tanti fermi ai bordi della strada a far finta di scrutare pedali e rapporti: la loro gara è finita e loro sono gli unici a non volerselo ancora raccontare. E’ già la quinta borraccia che bevo e il vento caldo in faccia mi secca la gola, ma il display segna quota 63 e tra poco avrò un pò di rigenerante discesa sotto alle ruote. Sbuco sull’Asse Attrezzato con ancora tante energie: devo aver risparmiato anche troppo, ma, per la prima volta, ho avuto la sensazione che, se non avessi “tirato indietro la gamba” non avrei finito la gara. Ho parecchia birra ancora e se ne accorgono tutti quelli che infilo di giustezza, aggrappato alle appendici come se non ci fosse un domani; volano i quindici finali e finalmente vedo il mare di Pescara come se fossero i Caraibi e le prime case della periferia. Una rotonda ed il viale alberato di porfido con le bandiere in fondo; scendo al volo dai pedali e sto già correndo lungo i tappeti azzurri.

Quando arrivo alla mia rastrelliera ci sono molti posti ancora vuoti. Afferro rapido l’ultimo sacca, quella blu: sulle panche ci sono una decina di atleti sdraiati che boccheggiano…non lo invidio. Mi infilo le scarpe e sono già fuori dalla tenda, pronto alla mezza maratona che mi attende. Esco dalla zona cambio con una leggerezza che non immaginavo fra due ali di facce fitte come la nebbia di novembre e Daniela è già lì: “Non mollare ragazzo”- mi urla dietro, come se mi avesse mai visto abbandonare una cosa in vita mia. Sto bene e le gambe girano fra i palazzi accaldati e umidi. Forse li pagherò questi primi chilometri così veloci, ma la sensazione di superare tanti pettorali e facce stanche è una tentazione troppo forte: avrò tempo per rallentare. Dieci giorni fa ho centrato proprio col menisco sinistro lo spigolo di un arrogante tavolinetto da the e sono stato dolorante a lungo: speriamo che tutto fili liscio. Di colpo passo sotto all’arco della Red Bull e il pensiero corre a Francesco, che deve essere lì davanti, da qualche parte, a sfrecciare col drago sul petto e il sorriso stampato in faccia. Abbiamo creato proprio un bel gruppo di amici, senza invidie o ridicoli agonismi, che all’età nostra non riusciremmo a prenderci sul serio neanche volendo. Intendiamoci, ognuno di noi ha la sua storia, ma quando nella vita sei una persona serena e realizzata e non hai angosce o ansie che ti aspettano dopo il traguardo, le gare le affronti con un’altro approccio e senza giocare a fare il superuomo, che a quarant’anni suonati saresti ridicolo il giusto; quelli che ti corrono accanto non sono avversari…gli avversari veri sono i limiti che hai dentro…sconfitti quelli, sei in pace con te stesso e puoi ridere in faccia a tutti. Per i più giovani della squadra il discorso ovviamente è diverso e a breve ne vedremo delle belle. Al ristoro c’è una fila di corridori assetati e per me ci sono i soliti due bicchieri d’acqua arraffati al volo: uno in testa e uno in gola. Sul rettilineo del lungomare, le facce sopra alle transenne sono così tante che mi sembra troppo; incrocio Francesco che mi ricorda ridendo la cena di arrosticini che gli ho promesso. Dopo qualche metro ecco Luigi: ha già il braccialetto del primo giro al polso, la falcata sicura ed il sorriso delle grandi occasioni: incrociare i compagni di squadra è sempre una cosa bellissima.

Sto con i miei pensieri mentre arrivo al secondo giro: una ragazza mi infila il braccialetto di spugna verde e si va avanti. Qualcuno già cammina. E’ ora di ingoiare l’ultimo gel che sonnecchia nella tasca di dietro del body e provare a cambiare passo. Provo ad accelerare e arriva da lontano, chiaro e vigliacco, un picco proprio al centro del menisco, speriamo bene. Sulla curva che riporta al rettilineo del lungomare, c’è un maledetto incosciente che sta arrostendo grassi arrosticini di pecora sul barbecue e tutto il fumo ci viene addosso: allora dillo che lo fai apposta! Sfilano facce stanche e passi pesanti, gli occhi mi vanno in automatico sul polso e quando vedo solo due bracciali penso che sarà ancora lungo il loro calvario. Il braccialetto rosso mi coglie impreparato ed assorto: comincio l’ultimo giro rallentando un po’ e me la gusto. Poco prima del rettilineo c’è un baretto e le facce dei clienti che ci squadrano, sorseggiando una birra al fresco, vale il prezzo del biglietto. Passa in fretta l’ultimo giro e il sorriso della ragazza che mi infila l’ultimo braccialetto, quello blu, me lo porto addosso fino al lungomare. Anche gli altri lo vedono che ho quattro bracciali di spugna colorati e mi guardano con rispetto ed invidia, che per molti di loro sarà ancora lunga. Mi sposto sulla destra mentre i ragazzi dell’organizzazione mi chiamano già per nome e mi incitano. Il rumore sale e mi allaccio il body: che si veda bene il drago del Terni Triathlon! Infilo il rettilineo finale con l’emozione in gola e il tappeto rosso sotto i piedi. Il primo urlo che riconosco è quello di Elisabetta, poi Luigi, ma sono Daniela e Francesco che mi fanno venire i brividi. Giro secco a sinistra fra due ali di folla e lo vedo, nero e maestoso, il traguardo dell’IronMan 70.3 di Pescara. A noi due…pallone gonfiato, te lo avevo detto che ci saremmo guardati in faccia! Ancora 30 metri di falcate arroganti e soddisfatte e poi la voce dello speaker che mi chiama per nome e mi dice che sono un finisher. Mani sconosciute mi infilano una medaglia pesante come le 6 ore e 23 minuti di gara e non  vedo l’ora di uscire dalle transenne per mettermi a ballare la mia gioia e il mio assoluto divertimento con Daniela. Il primo, probabilmente, sarà già a casa, in Austria, ma lui non saprà mai cosa significa gareggiare col drago rossoverde sul petto e non si godrà gli arrosticini con il resto della truppa. Da domani penseremo al prossimo obiettivo, spostando l’asticella più in alto, ovviamente…nel frattempo, come dice John Travolta in Staying Alive…”vado a farmi il mondo”.

Riccardo

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